Dopo le prime 10 ore di volo, il tempo sembrò essersi fermato. Il mio corpo stremato mi comunicava la sua esigenza di sonno, ma la luce accecante proveniente da qualche fessura qua e là suggeriva che era ancora pieno giorno. Alternavo film in inglese ancora poco comprensibili a momenti di pianto disperato, che annebbiavano le immagini impresse nella mente dei volti rigati dalle lacrime della mia famiglia.
Parlai solo una volta durante tutto il viaggio; il mio interlocutore, una hostess piuttosto scocciata, rispose con noncuranza quando scelsi il menù vegetariano con voce roca e spezzata dai singhiozzi. Mangiai, inghiottendo a fatica qualche boccone freddo ed insipido, per poi tornare al piccolo schermo sulla poltrona di fronte, fissando nuove immagini con sguardo assente.
In qualche modo arrivai all'aeroporto di Newark, New Jersey, dove spiccicai finalmente qualche parola con alcuni coetanei diretti verso svariate città americane, che come me aspettavano con ansia il famigerato controllo passaporti.
La mia coincidenza sarebbe partita di lì ad un'oretta scarsa e il torrente di persone davanti a me non sembrava sfociare al di là della dogana. <Beh, un'ora è lunga> avevo pensato durante l'atterraggio in un momento di poca lucidità, quando ancora ero ignara del fatto che gli arrivi erano lontani qualche chilometro dalle partenze. Il mio sguardo cominciò dunque a scrutare nervosamente l'orologio sul maxischermo sopra le nostre teste, sperando che si fermasse di colpo, regalandomi più tempo.
Poi magicamente mi ritrovai da sola, catapultata in una piccola ma caotica città di Babele fatta di brusii indecifrabili tra persone dall'aspetto disparato. Mi feci largo tra una folla di pendolari assonnati e famiglie schiamazzanti, un po' correndo, un po' arrancando, trascinando una valigia più pesante di me. Attraversai corridoi di cui non vedevo la fine, superando Gate dopo Gate, sorprendendomi di non essermi ancora persa in quel labirintico edificio vetrato.
Ad un tratto mi bloccai di colpo: alla mia destra, al di là della città di cristallo in cui mi trovavo, intravidi i mostruosi edifici di Manhattan che sembravano solleticare il cielo azzurro, in un'unione quasi fantastica tra sogno e realtà. In quel momento, per la prima volta da quando decisi di iscrivermi al programma, mi sentii al sicuro, dentro quell'abbraccio architettonicamente perfetto dei grattacieli Newyorkesi. Ce l'avevo fatta, da sola. Ero partita. Una forza incontenibile mi fece fremere di gioia, e le gambe ricominciarono a muoversi verso l'aereo che mi avrebbe portato nella mia nuova casa.
Così, raggiunsi il Gate con largo anticipo, ed ebbi addirittura il tempo di girarmi un'ultima volta ad ammirare il panorama mozzafiato dietro le vetrate; lo salutai in un arrivederci pieno di gratitudine, e mi incamminai verso la pista di atterraggio con una nuova consapevolezza: tutto sarebbe andato bene.