Benvenuto caro lettore. Intanto ti fornisco qualche breve informazione sulla persona che si cela dietro le parole che stai per leggere. Mi chiamo Valentina e attualmente ho 16 anni. Abito a Reggio Emilia, una grigia e monotona città del Nord Italia che nessuno conosce. Qualche mese fa presi l'importante decisione di diventare un'exchange student, infatti trascorrerò 10 mesi in una bellissima cittadina vicino a Houston, Texas. Ho voluto aprire questo blog per avere a disposizione una valvola di sfogo, un luogo in cui poter essere quello che sono senza filtri. Detto questo buona lettura.

giovedì 25 febbraio 2016

100.

Sono scomparsa, direte.
Mi ero ripromessa di aggiornare almeno una volta a settimana, ma guarda un po’? Sarà passato quasi un mese dall’ultima volta che ho scritto qualcosa. Potrei inventare l’inaffidabile scusa del ‘sono impegnata’ o ‘mi sto godendo la mia vita qui come si deve senza pensare all’Italia’; entrambe sono del tutto false. La verità? Per la prima volta nella mia vita sento di non poter verbalizzare il moto continuo nella mia testa. I pensieri nitidi sono pochi, quelli sfocati troppi, quelli a metà non si contano nemmeno. Eppure c’è quel numero, in primo piano, grande e pulsante che sembra essere il punto di origine, il principio. 100.
Cos’è 100?
E’ quella quantità ambigua che, a seconda dell’oggetto contato o della persona contante, può essere ritenuto piccolo o grande.
Sì, 100 sono i giorni che mi separano dal 2 giugno, data dell’arrivo dei miei genitori. Più lo guardo e più mi spaventa. Non so, è tanto; ma è allo stesso tempo è nulla comparato a tutto quello che ho dovuto affrontare da quando sono qui.
Non sono altro che poco più di tre mesi, come le vacanze estive di uno studente. Eppure ho sempre visto l’estate come un lunghissimo arco di tempo. Forse non è l’esempio esatto. Non in questo momento, non in questa giornata grigia e piena di insofferenza.
Ci sono davvero giorni in cui mi sveglio e la mia testa sembra volermi comunicare che è stanca di inglese. Ogni classe sembra interminabile e ogni frase un poema. Sì, oggi vorrei davvero poter parlare in italiano con chiunque.
Qualcuno ieri mi ha fatto una domanda molto interessante. ‘Vale, sei felice?’ Oggi la stessa persona mi ha fatto notare che una mia risposta non è mai arrivata. La realtà è che una risposta non la ho, e questo dato di fatto non fa che scoraggiarmi. Facile scapparsene con un ‘va a momenti’, la mia bipolarità è ben nota a tutti. No, questa volta aspettavo da me stessa una risposta vera, un postulato concreto da non poter variare a seconda del tempo atmosferico, ciclo mestruale o verifiche giornaliere.

A quanto pare ho deluso me stessa, ancora una volta. Ed è anche per questo che quel 100 mi assilla. Il tempo passa e la candela brucia dicono. Qui è la mia unica opportunità di trovare risposte e sento che questa opportunità si sta dissolvendo giorno, dopo giorno.

sabato 6 febbraio 2016

Timed writing.

Ed è quando l'insegnante pronuncia le parole 'timed writing' che per un attimo il petto sobbalza. Più comunemente chiamato tema, consiste nell'avere meno di 45 minuti per scrivere una sottospecie di saggio breve limitato da schemi preimposti dal distretto. Tutto ciò avviene una volta ogni due o tre settimane nella classe di inglese.
Ora analizziamo insieme la situazione: Circa un terzo del tempo che in Italia ci è concesso per scrivere un perlomeno decente tema in classe. Una lingua che, seppur migliorata, non sarà mai al livello del mio italiano. Un telefono obbligato ad essere consegnato all'inizio dell'ora. Nessun cavolo di mezzo per tradurre parole che potrei non sapere. Solo un dizionario della lingua inglese, una matita, un foglio bianco e le fonti da cui trarre 'evidence'.

Dopo vaghi tentativi di programmazione a casa, mi sono ovviamente ridotta ad arrivare lunedì in classe senza una minima ispirazione. Ebbene, cari ragazzi, ancora una volta la nostra tanto odiata e sottovalutata scuola italiana ha dato i suoi frutti. Il mio voto finale è stato più alto della maggioranza della classe. Ora, parlando ragionevolmente, come può essere possibile? La spiegazione mi è balzata all'occhio solo dopo qualche giorno. I ragazzi americani sono abituati a strutturare la frase sul modello terza elementare, vale a dire 'soggetto, verbo, complemento (per lo più oggetto diretto)'. Non usano arricchimenti, non stravolgono, a volte nemmeno usano la punteggiatura (si, in quello che qui è il terzo anno di superiori, stiamo studiando il punto e virgola). Dopo il mio sconvolgimento iniziale, ho ancora una volta tirato le somme con la conclusione che la nostra vecchia e antiquata scuola italiana, accademicamente parlando, vale il doppio di questo 'baraccone' americano.

Ecco a voi il mio 'essay' intitolato 'IDENTITY AND STEREOTYPES'.

"Gnothi seauton", know yourself. That is what was written on the pediment of the Apollo temple, in Delfi. For centuries people have tried to follow that specific advice falling, most of time, in the treaking arms of stereotypes' influence. Exterior and cursory judgments ended up by ruining, and sometimes shaping people's identity; in worst cases, others' opinions have literaly stolen lives. It is, in fact, important to figure out your life on your own terms despite what society belives you must become, because otherwise, you'll be traped and forever taged like someone else; there is no worse thing than becoming "another one in the omogeneus group", deprived of personality and opinions.

Stereotypes make you feel traped, like a bird with wounded wings. Even positive stereotypes limit and condition our daily lives. For instance, Haily Yook, an Asian American student wrote that 'this positive prejudice is just as threatening to my identity'. What she means is that even though positive stereotypes are not meant to be offensive, they always end up being hurtful. In particular, she feels constantly under pressure because a person who "is supposed to be better" never gets merit of actions, is just expected to be better. Some people, though, have the strenght to ignore prejudices: Zora Hurtson, an African Amerian woman, compares herself to 'a bag of miscellany propped against the wall' in her essay 'How it feels to be colored'. She teaches us that it's impossible to guess what is hidden inside just watching the exterior. That's the huge trap: too many people stop at the appareance and start judging without evidence.

Therefore, someone might argue that is easier to get used to 'tags' since it requires no effort and it's a faster way to be accepted in the society. If you do so, you'd become just another piece of someone else's game and you'd loose once again your own identity shaping your existace in conformity of meaningless prejudices. How could a person avoid that? Alice Walker said that 'It seems impossible that desire can sometimes trasform into devotion'. Nothing will be wasted if you work hard to grow your own life. It's not anybody else's choise, YOU get to decide who you want to be. That is exactly what Janie understands after only 16 years in the book 'Their eyes were watching God'. She spends her childhood surrounded by a close-minded world from which she wants to escape. So, when her grandma says 'you're not a child anymore', she grabs her life and breaks the walls that have traped her ever since.

Finally speaking, we can't let society build our identity because, if it did, we'd be dead even before we start to live; only knowing ourselves we can establish our personality and move away from being stucked in society's judgements.